Ogni volta che prendo in braccio mio figlio appena nato mi rendo conto che sto impiegando gran parte delle mie energie per risolvere un problema di comunicazione.
Sono sicuro che ha tante cose da dirmi: ha fame, mal di pancia, è contento, infastidito da qualcosa, vuole dormire o essere coccolato.
Come si fa a capire tutte queste cose? Sposto la mia attenzione dai movimenti alle espressioni, osservo, mi concentro per cercare di capire se un atteggiamento si ripete, poi provo e poi cambio a seconda di come va, di cosa ottengo. A volte riesco a capire esattamente cosa vuole a volte no e lui si calma ma poi immediatamente ricomincia come prima. E così resto qui aspettando che cresca e che impari i primi rudimenti di comunicazione.
Poi però penso che una volta che avrà imparato a parlare comincerà a scegliere con attenzione quello che vorrà comunicare e quello che, al contrario, deciderà di tenere per sé e forse, anzi certamente, le cose saranno più complicate di come sono ora.
Quando sono in studio con i pazienti a volte mi sento un po’ così.
È una faccenda complessa la comunicazione, c’è sicuramente una parte verbale, quello che diciamo, ma c’è una grossa parte di non verbale, quello che non diciamo ma che comunichiamo con il corpo, le espressioni, i gesti. E poi c’è una parte che non comunichiamo per nulla perché magari è una parte che non è ben chiara nemmeno a noi.
Sono i nostri bisogni più profondi, che derivano dai nostri valori e da quello che siamo veramente. È difficile esprimerli ma potrebbe essere molto utile farlo quando stiamo parlando della salute di una persona.